I disciplinari italiani sono anacronistici

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Anacronistico significa antiquato, superato. Ecco, penso che abbia ragione Franco Allegrini a dire che, almeno in certi casi, i disciplinari di produzione dei vini italiani sono anacronistici. L’aggettivo gliel’ho sentito pronunciare a margine di una cena a Villa della Torre, luogo di rappresentanza della celebre maison famigliare nella Valpolicella classica. “È anacronistico – ha detto – che ci siano vincoli all’uvaggio. Si stabilisca una base ampelografica e poi si lasci libertà di interpretarla”. Sono totalmente d’accordo.

Ovviamente il suo riferimento era ai disciplinari valpolicellesi, che tuttora obbligano all’utilizzo di una seppur minima quantità di rondinella, impedendo così, nei fatti, di portare a completezza, per chi lo volesse, l’uso delle ben più identitarie varietà della corvina veronese e del corvinone, che possono arrivare, da sole o insieme, fino al novantacinque per cento. Basterebbe togliere lo scoglio di quel cinque per cento e il gioco sarebbe fatto, senza impedire con questo di adoperare la rondinella a chi intendesse farlo. Però l’interpretazione corrente, non solo per la Valpolicella, è che se un disciplinare è nato come pluricultivar tale deve restare. Dunque, un pelo di rondinella, che era obbligatoria sin dalla nascita della denominazione, deve restare. Il che, se me lo permettete, è un assurdo retaggio dei limiti burocraticamente definiti negli anni Sessanta, quando in Italia cominciammo finalmente a darci delle regole. Vecchiume.

Sono un sostenitore dei vini di terroir. È il terroir l’elemento che deve caratterizzare un vino, non il vitigno. Il vitigno è lo strumento che permette al vignaiolo di interpretare il terroir. Alcuni vitigni si prestano meglio di altri. Quindi si scelgano i vitigni più idonei, ma senza dogmi nella composizione percentuale dell’uvaggio. Si lasci al vignaiolo libertà di interpretazione all’interno della gamma dei vitigni indicati.

Il mio riferimento è il disciplinare francese dello Châteauneuf-du-Pape. L’articolo due dice: “Les vins ayant droit à l’appellation contrôlée Châteauneuf-du-Pape devront provenir des cépages suivants à l’exclusion de tous autres: grenache, syrah, mourvèdre, picpoul, terret noir, counoise, muscardin, vaccarèse, picardan, cinsault, clairette, roussane, bourboulenc”. Tredici vitigni, un po’ a bacca bianca, un po’ a bacca rossa. Ogni vignaiolo è libero di usare quelli che vuole, anche uno solo, anche tutti quanti. Però i vini poi sanno comunque di Châteauneuf-du-Pape. Semplicemente, a seconda della stagione si decide quale assemblaggio fare. Mica tutte le varietà rendono alla stessa maniera al cambiare delle condizioni stagionali, e dunque che senso ha imporre un uvaggio predeterminato?

Succede lo stesso per i rossi di Bordeaux. Anche lì si indicano le uve ammesse, ma non le quantità. L’articolo 2 del disciplinare stabilisce così: “Pour les vins rouges: Cabernet-Sauvignon, Cabernet franc, Carmenère, Merlot rouge, Malbec, Petit Verdot”. Non c’è alcuna percentuale. Dunque, ci sono le vendemmie nelle quali prevale il merlot e quelle in cui invece predominano i cabernet, o anche quelle che vedono un equilibrio più spiccato fra le singole componenti.

Così mi piace, e mi piacerebbe accadesse anche qui in Italia. Non sempre, ovviamente, non ovunque. Nelle aree che abbiano tradizione plurivarietale. Non mi azzarderei a proporre una cosa del genere nelle zone nelle quali la tradizione veda un solo vitigno. Per esempio, il Barolo è fatto col nebbiolo, e basta.