Se il digiuno è questione di gastronomia

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Mi capita a volte di scrivere queste note viaggiando in treno. Stavolta su un eurostar che va verso Milano. Siamo a Brescia. È appena salita gente: sono le 13. Poco discosti da me han preso posto due uomini, in giacca e cravatta. Hanno in mano, entrambi, un vassoietto di carta, e sopra un trancio di pizza. Lo trangugiano in fretta, in un battibaleno: han finito che il convoglio non s’è ancora mosso. E poi subito tuffati nel lavoro: l’uno al pc, l’altro al telefonino.

Ecco: manca il tempo, manca una dimensione. E per riagguantarne una briciola ci priviamo del gusto, che è, per me, un’altra dimensione importante del vivere. Ce ne priviamo inghiottendo qualunque cosa fra un’occupazione e l’altra, purché abbia la parvenza di cibo. Ce ne priviamo incamerando alimenti da catena di montaggio.

Sembra un fatto banalmente accettato come necessario. Ma è preoccupante. E non per motivi salutistici o dietetici. Il problema è un altro. È culturale. E cito una frase di Carlo Petrini, fondatore si Slow Food: “Il cibo è il principale fattore di definizione dell’identità umana, perché ciò che mangiamo è sempre un prodotto culturale”. Se è vero, il mangiar d’oggi è culturalmente preoccupante: è la riprova che qualcosa non va in questa nostra vita che corre, corre, corre senza una mèta precisa. Viviamo per il lavoro. In catena di montaggio.

Allora, viva la moderazione. E dunque stavolta parlo del digiuno.

Il digiuno, di tanto in tanto, fa bene. Al fisico, alla mente, al gusto. Sembra un paradosso, ma è così. Perché per apprezzare fino in fondo qualcosa (qualcuno) bisogna averne provata la privazione. Fors’è un’esperienza che avete anche voi vissuto, ché fa parte del vivere. E dunque per dar valore per esempio al cibo occorre averne provata l’assenza che stringe alla gola. Per dar credito al vino serve aver testato l’arsura della sua lontananza coatta.

articolo pubblicato originariamente il 24 marzo 2007