Il desiderio struggente di quel che non hai (più)

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Mi diceva in questi giorni un amico della sua fatica a non poter gustare un bicchier di vino a tavola, ora che i medici gliel’hanno vietato per via di certe cure che gli tocca fare. Ecco: son certo che quando potrà tornare a berne, di vino – e son sicuro che potrà – ne saprà assaporare sino in fondo il gioioso ritrovamento. E avrà bisogno di berne meno di prima, ché il ritrovamento darà più sensibile il piacere.

È il desiderio struggente di quel che non hai (più) a farti meglio apprezzare quel che hai avuto e a farti sognare quanto potrai avere. E i nostri genitori e nonni e avi molto probabilmente hanno vissuto il morso della privazione. Di qui nasceva il gusto – ahiloro, molto occasionale – del convivio. E il ritrovarsi a festeggiare a tavola era occasione solenne. E il bere insieme il bicchiere era profondo segno di condivisione.

Ecco, il digiuno è pratica che comunque può valer la pena d’esercitare, talvolta. Anche per il gastronomo. Anzi: forse di più proprio per lui, ché si rischia di perdere il senso, la misura, il gusto vero. Ed è prova contro se stessi, contro lo stimolo belluino. E quando n’esci vincitore hai dominato te stesso e l’istinto primordiale che è in te, e dunque più controllato e vero sarà il successivo (re)incontro col piacere del cibo e del vino. Vedete? È questione di gusto, anche.

Non dobbiamo far gli eremiti. Solo capire un po’ meglio la nostra dimensione. E quella del cibo. E quella del vino. Che son poi frutti della fatica e dell’intelligenza e della genialità.

Non è piccola cosa. Forse, il privarsene occasionalmente ce li fa meglio capire, quei gusti, quei sapori, quelle fragranze, quegli afrori, quegli aromi, quei succhi, quelle sapidità, quelle freschezze, quel pastoso calore. Ce li fa meglio apprezzare. Per apprezzare di più la vita. Che è nostra. Solo nostra. Ed è vita, con le sue fatiche, i suoi dolori, le sue assenze. E, talvolta, le gioie.

articolo pubblicato originariamente il 24 marzo 2007