Commissioni di degustazione, cambino o chiudano

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Perché un vino possa andare in bottiglia sotto l’insegna di una denominazione di origine controllata occorre che assolva a tre incombenze: che rispetti le previsioni del disciplinare, che sia sottoposto a un’analisi chimica e fisica in modo da verificare che i parametri siano quelli stabiliti dalla normativa e che passi il vaglio della commissione di degustazione della società di certificazione della sua specifica doc. Il punto debole del processo è il terzo.

Le commissioni di degustazione stanno diventando un cruccio di molti produttori, soprattutto ora che sta via via crescendo il numero di coloro che imbracciano i canoni del “naturale” o quanto meno del biologico. Spesso i vini che seguono questi criteri dichiaratamente orientati alla sostenibilità vengono bocciati dalle commissioni perché “ridotti” o perché “poco tipici”. Senza purtroppo pensare che invece nei vini marcatamente territoriali spesso le riduzioni in gioventù sono un fattore fondamentale di garanzia di longevità del vino e che “tipicità” non significa omologazione. Dunque, stando così le cose le commissioni stanno divenendo un cruccio non solo per i produttori, ma anche per gli stessi appassionati di vino, che si trovano molte volte a inseguire le bottiglie più espressive dei vari territori dentro alle igt o addirittura nel variegato mondo dei vini “da tavola”, perché la scure dei commissari ha falcidiato i vertici espressivi, anziché le mediocrità.

Ammetterete che questo è un problema. Un problema serio.

Le soluzioni a mio avviso sono due.

La prima è quella di accrescere la formazione dei componenti delle commissioni anche in termini di conoscenza e approfondimento delle pratiche produttive – come dire – “non di scuola enologica convenzionale”, e mi verrebbe da scrivere perfino “non di scuola enologica filo bordolese”, semmai guardando con maggiore attenzione al pensiero borgognone. Per fare questo servono tempo (quello dei commissari), parecchi soldi (i vini espressivi fatti in giro per il mondo costano parecchio – si pensi proprio ai Borgogna – e farli assaggiare è tuttavia essenziale, poiché non si può pretendere che chi fa parte delle commissioni abbia enorme esperienza di degustazioni di caratura internazionale e neppure nazionale) e ottimi formatori (e questi sono rari, e ovviamente anche questi costano, soprattutto quando occorre andare a cercarli all’estero).

La seconda opzione è più radicale, e mi dispiacerebbe si dovesse arrivare lì: abolire le commissioni di degustazione e limitarsi alle analisi fisico-chimiche, in modo che chi rispetta questi parametri abbia la doc e chi non li rispetta non ce l’abbia, senza la roulette russa della presunzione di tipicità e di incomprensione sull’effetto delle riduzioni.

In ogni caso, ripeto, il problema c’è, e non è per niente irrilevante.


3 comments

  1. MAURIZIO GILY

    In non pochi casi però c’è una terza opzione, fare vini più buoni. L’espressività è una cosa, e ammette l’imprecisione; la puzza di aceto o di cavallo sudato un’altra cosa. Non c’è nulla che impedisca a chi fa un vino biologico di farlo senza palesi difetti, se non l’ignoranza dell’enologia. Concordo sul fatto che le commissioni spesso non siano adeguate e facciano errori per eccesso di tecnicismo e poca aderenza con il gusto attuale, l’ho sempre detto e scritto. Ma capita pure di assaggiare vini onestamente impresentabili, che danneggiano l’immagine della denominazione. Per cui la questione di dove mettere I paletti e tutt’altro che banale.

  2. Angelo Peretti

    Angelo Peretti

    Ci sono “riduzioni” che non rientrano nelle fattispecie che indichi, Maurizio: la Borgogna insegna. Credo che la stragrande maggioranza dei grandi rossi borgognoni verrebbe bocciata dalle commissioni italiane.

  3. Stefania Zolotti

    Solo da suggerimenti scomodi come questo è possibile ridare una dignità al nostro mercato che altrimenti ondeggia senza nemmeno capire chi lo sta spingendo di qua e di là: una volta le guide, un’altra i consulenti aziendali, la prossima chissà. Commissioni anacronistiche fanno solo il male del settore ma una traccia serve e come: apprezzo molto di più quindi la proposta di investire su di loro per evolverne la formazione. Fondi si trovano, non è detto che debbano essere tutti spesi in promozione del vino. Serve un passo indietro, di sistema, per guadagnarci poi tutti: da chi produce vino a chi lo comunica. Trovo sempre più pericolose per la cultura italiana in genere l’uso distorto e rischioso che si fa delle parole “tipicità” e “tradizione”, da alibi stanno diventando gabbie in molti campi professionali.

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