Il caso Sauvignon e gli ingredienti del vino in etichetta

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La coincidenza temporale è da pugno nello stomaco. Il 18 ottobre a Bruxelles la Commissione europea ascoltava le (per me giuste) recriminazioni dei vignaioli europei della Cevi (che include anche la nostra Fivi), che chiedevano di non dover scrivere in etichetta i valori nutrizionali, così come si battono per non essere obbligati a indicare gli “ingredienti” dei loro vini. Lo stesso giorno sulla stampa friulana si dava notizia del patteggiamento della stragrande maggioranza degli indagati nel “caso Sauvignon”, ossia 41 soggetti tra persone fisiche e aziende agricole che erano sotto l’accusa di aver “dopato” il loro vino con “un esaltatore di aromi, non nocivo alla salute ma non previsto nel disciplinare di produzione dei vini Doc, venduto per anni a tutti coloro che confidando nella sua esperienza puntavano ‘semplicemente’ a migliorare le proprie bottiglie” (il virgolettato è preso dall’articolo di Luana de Francisco sul quotidiano Il Piccolo, nel quale vengono elencati – fatto più unico che raro – anche i nominativi dei soggetti coinvolti).

Per la faccenda del Sauvignon, a suo tempo, quando il caso scoppiò con una certa virulenza, non mi schierai né con gl’innocentisti, né coi colpevolisti. Semplicemente, non mi pareva che le notizie emerse fornissero sufficienti elementi di valutazione. Ora prendo atto del patteggiamento, che da un lato può significare che i più hanno voluto cavarsi dalle rogne d’un lungo processo (a fronte del versamento di qualche migliaio di euro) e che però dall’altro suona, almeno implicitamente, come l’aver ammesso che il dopaggio c’era stato. Il che però mi fa tornare all’altra faccenda, quella degli “ingredienti” del vino. E sì, temo che questa storia possa far pendere l’ago della bilancia verso l’opinione di chi vuole che sulle etichette si scriva tutto, ma proprio tutto quel che si fa in cantina nel produrre vino.

Mi si potrà obiettare che chi fa  cose strane di certo non le scrive in etichetta. Vero, ma così agendo aumenta anche i propri rischi, e dunque forse è un po’ meno “distratto” quando fa – o fa fare – le scelte di cantina. Il che, ripeto, potrebbe portare acqua al mulino di chi vuole le etichette piene di informazioni. Dunque, il mondo del vino italiano finirebbe con l’essersi fatto del male con le proprie stesse mani, alla faccia di chi si va a battere in Europa per sostenere la causa dei vignaioli.

A proposito di quest’ultimo aspetto, tuttavia, mi permetto una sottolineatura che potrebbe magari sembrare polemica, ma tale non è. Si tratta di una mia aspettativa. Mi aspetto cioè che ora la Fivi inviti i propri associati coinvolti nella vicenda (ce n’è qualcuno, a scorrere l’elenco) a fare un passo indietro e a uscire. Non mi pare il caso di inquinare le (lo dico di nuovo, giuste) istanze dell’associazione contrarie alle inutili ridondanze nelle etichettature con l’avere tra i propri associati chi ha implicitamente ammesso di aver adoperato un qualche “esaltatore di aromi”, che, seppure non meglio definitivo e sebbene dichiarato per nulla nocivo, è comunque contrario alla normativa. Altrimenti si rischia d’indebolire la posizione e si può finire per dare ragione – insisto – a chi pretende che sulle etichette ci si scrivano un sacco d’informazioni.

Più ancora apprezzerei, a dire il vero, se il passo indietro quei produttori lo facessero da soli, senza bisogno che qualcuno li inviti.


5 comments

  1. Andrea

    Io invece sono d’accordissimo sul fatto di scrivere tutti gli ingredienti e le pratiche eseguite in cantina. Sarebbe l’unico modo per informare realmente il consumatore, mediamente ignorante in materia, su quello che sta realmente bevendo, esattamente come succede per tutti gli altri prodotti alimentari.

  2. Nic Marsél

    In realtà lo si potrebbe già fare. Semplicemente i produttori si avvalgono dii una deroga che di fatto rende la cosa facoltativa. Il che non significa divieto di scrivere gli ingredienti. Diversi avevano cominciato a farlo negli anni scorsi mentre oggi sono rimasti pochissimi. Troppi rischi di sanzioni soprattutto per i “piccoli” per potenziali errori formali. Ma l’etichetta “trasparente” non è certo la strada per evitare le truffe. Quelle continueranno ad esserci indipendentemente dall’etichetta. Contrariamente ad Angelo (e alla FIVI), sono assolutamente a favore di un’etichetta con ingredienti, coadiuvanti, additivi, conservanti, eccipienti ecc… e sono convinto che farebbe bene soprattutto ai vignaioli indipendenti, che invece valutano in maniera opposta il business case (avranno i loro motivi). Sull’utilità delle informazioni nutrizionali sono invece molto perplesso. Comunque l’articolo non fa una grinza.

  3. Andrea Giagulli

    Farebbe lo stesso per ogni singola pietanza che mangerebbe in un ristorante? Chiederebbe tutti i singoli ingredienti presenti nel piatto? La specifica dei milligrammi di pepe o sale aggiunti? I millilitri di olio presenti? I tempi di cottura in forno o in padella? Mah…

  4. Attilio Romagnoli

    Se é per questo la Commissione Europea chiede di trovare un termine per indicare l’affinamento in botte in etichetta: Il motivo é la diffusione dei frammenti legnosi, meglio conosciuti come “chips”.
    É bene dire che anche il piccolo vignaiolo si é industrializzato, e nell’associazione coesistono artigiani e vino-businessman.
    Non sono d’accordo invece con quanto ha sostenuto la CEVI davanti alla Commissione Europea: “che secondo un’indagine di mercato gli ingredienti interesserebbero solo il 10% dei consumatori”…”e che é solo un costo per i piccoli produttori”. Mi piace pensare che il vignaiolo vive per quell’esiguo 10%.

  5. Andrea

    Se in un vino hanno aggiunto gomma arabica io lo voglio sapere. Se per fare il vino sono stati usati lieviti selezionati lo voglio sapere. Se quel vino è stato filtrato, stabilizzato o chiarificato, lo voglio sapere.
    Voglio sapere se sto sto bevendo Vino o una bevanda costruita in cantina.

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