Carema, il Canavese, il senso del terroir

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Chi mi segue da più tempo, mi ricorda spesso che è passata ormai una ventina d’anni da quando organizzai le prime degustazioni, fra amici, dei vini bianchi del Jura, all’epoca poco conosciuti qui da noi e poi divenuti oggetti di culto. A chi oggi mi domandi in quale direzione guardare per cercare la nuova terra emergente della Francia del vino, suggerisco la Savoia, soprattutto quella dei bianchi. A un giornalista americano che una manciata di anni fa mi pose lo stesso quesito riguardo all’Italia, parlai di Cirò e del suo gaglioppo, che ora fanno tendenza. Adesso gli suggerirei di orientarsi verso l’Alto Piemonte e soprattutto verso il suo nebbiolo, tant’è che anch’io, due anni fa, andai a percorrere qualche bel chilometro a piedi tra le vigne arditissime di Carema e di Settimo Vittone, delimitate da colonnati di pietra che sorreggono la pergola in un unicum fascinoso di arcaica architettura viticola. Il primo dei due comuni dispone di una propria autonoma denominazione di origine e l’altro, confinante, è ricompreso nell’areale più ampio della doc Canavese. Il Carema, per disciplinare, si fa con almeno l’ottantacinque per cento (ma nei fatti quasi sempre il cento per cento) di nebbiolo, lì detto picotendro, mentre la doc Canavese prevede alcune diverse tipologie, tra le quali spicca peraltro quella del Canavese Nebbiolo, e il cerchio si chiude. Anche se non va dimenticato l’erbaluce, seconda grande risorsa in divenire di quelle terre, che forma la docg di Caluso e si usa anche per il bianco della doc Canavese.

Sono tornato di recente da quelle parti, al castello di Masino, a Ivrea e a Borgofranco, per ReWine, una manifestazione organizzata dall’associazione dei Giovani Vignaioli Canavesani, costituitasi in tempi pandemici, a giugno del 2020, e a quanto vedo già tra i punti di attenzione della rinascita di quelle terre, con l’entusiasmo e anche talora con quelle piccole asperità che caratterizzano la giovinezza. Non mi ha stupito, in particolare, che quest’anno il gruppetto dei vignaioli abbia inteso soffermarsi sull’idea del terroir. Perché se il fulcro autentico del terroir è l’umanità, come credo fermamente da lungo tempo, quel loro territorio vitato, e i vini che ne provengono, ne sono una delle dimostrazioni più luminose, in Italia. Luminose, ripeto, anche se non ancora illuminate da piena notorietà. Ma lo saranno, se si perservera nel sottolineare in primo luogo il valore di una comunità di persone che fanno vino, riconoscendosi nella medesima matrice identitaria, rappresentata da un territorio addomesticato con fatica e dalle sue denominazioni. In questo, semmai, trovo stonato che un paio (e a dire il vero solo un paio, fra tutti) di produttori locali mi abbia ostentato la lontananza dalle doc “per principio”. Le questioni di principio raramente portano qualcosa di buono. Io apprezzo invece la fatica, e stare insieme agli altri, percorrere una strada comune, è perfino più faticoso che coltivare la terra. Quel che dunque ammiro nei Giovani Vignaoli Canavesani è la loro dichiarata intenzione di lavorare con gli altri, seguitando a confrontarsi con le istituzioni consortili e territoriali, perfino quando le loro battaglie portino alla sconfitta, come nel caso, recente, della richiesta di utilizzare localmente in etichettatura il nome del vitigno erbaluce anche al di fuori della denominazione dell’Erbaluce di Caluso.

Fare terroir è anche fare questo, stare nella comunità, comunque. Non a caso, Armando Castagno, che a ReWine ha tenuto una dottissima e accalorata relazione sul senso del terroir, ha ricordato che la definizione datane dall’Inao, ossia l’istituto che sovrintende alle denominazioni di origine francesi, si basa sul senso di comunità.

Il terroir – afferma l’enunciato transalpino – è uno spazio geografico delimitato, nel quale una comunità umana ha costruito, nel corso della sua storia, un sapere comune per la produzione, fondato su un sistema di interazioni tra un mezzo fisico e biologico e un insieme di fattori umani. Gli itinerari socio-tecnici messi così in gioco rivelano una originalità, conferiscono una tipicità e conducono a una reputazione per un bene originario di questo spazio geografico“.

Di questa definizione, Castagno ha poi voluto proporre una sua personale rielaborazione, che peraltro si basa anch’essa, e fortemente, sul senso comunitario. Ritengo utile riportarla qui di seguito.

Il terroir – propone Armando Castagno – è uno spazio geografico delimitato, abitato da una comunità umana e caratterizzato da una attività agricola. Il prodotto agricolo è messo in valore nel corso del tempo dal lavoro della comunità, determinato dall’attitudine del luogo, custodito dal vigore della sua biodiversità e qualificato dalla virtuosa interazione tra luogo e cultivar. La comunità umana discute, elabora e adotta un patrimonio collettivo di regole produttive di base condivise e accettate; pone a disposizione di tutti l’esperienza accumulata lungo tale percorso di conoscenza in ogni modo possibile. Nessun terroir viene a crearsi per mera iniziativa individuale, o per via progettuale, opportunistica o politica. Tanto il terroir pone in valore il bene finale a cui dà vita, quanto il bene finale valorizza il suo terroir di nascita. Spetta al consumatore finale il riconoscimento eventuale del valore in tal modo venutosi a creare”.

Credo che la sottolineatura sull’elaborazione e sull’adozione di un patrimonio – sottolineo, patrimonio – di regole condivise, discusse dalla comunità locale e dalla stessa accettate – sottolineo, accettate in quanto patrimonio della comunità – sia lo snodo culturale su cui ancora, in troppe parti d’Italia, purtroppo ci si smarrisce. Il fatto che nel Canavese ci si rifletta, e che la riflessione scaturisca da un gruppo di giovani vignaioli, in presenza però anche di chi rappresenta le istituzioni e i consorzi, mi induce all’ottimismo.

Insomma, sottoscrivo quando sostiene Castagno, ancorché con qualche riserva riguardo all’ultimissima parte della sua definizione, laddove si suppone che spetti al consumatore finale riconoscere il valore del bene scaturito dal terroir. In un mondo perfetto e ideale, questo sarebbe vero. In realtà, a mio avviso i condizionamenti cui il consumatore è sottoposto nel corso della lunga catena che porta verso la scelta di consumo di un dato bene agroalimentare sono tanti e tali da privarlo della piena libertà di valutazione, e questo si riflette inevitabilmente sulla formazione del prezzo, di per sé già condizionato dalle dinamiche dell’offerta e della domanda. Il nostro non è il migliore dei mondi possibili, anche se mi sento abbastanza sicuro di affermare che laddove le persone lavorino insieme, accettando i reciproci limiti, il mondo può essere un pochino migliore di quel che è. Il senso comunitario del terroir, per me, è anche questo. Vedete a quante e a quali riflessioni può condurre un sorso di vino?