Siamo bravissimi a sprecare le occasioni

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Sulla copertina del numero di ottobre della Revue du Vin de France c’è questo titolo: “Vin de France. La dénomination qui autorise toutes les audaces”, ossia “Vin de France. La denominazione che autorizza ogni genere di audacia”. All’interno, le recensioni delle settantadue migliori etichette di Vin de France fra le duecentoquarantuno arrivate alla redazione della rivista transalpina. Il che mi ha fatto pensare. A quanto siamo bravi noi italiani nello sprecare le occasioni.

Passo indietro. C’era una volta il “vino da tavola”, quello generico, fuori dalle denominazioni di origine e dalle indicazioni geografiche. Poi, una decina di anni fa, è arrivata la riforma della nomenclatura vinicola, e al posto di “vino da tavola” si è incominciato a dover scrivere “vino rosso” o “vino bianco”. Ma è arrivata anche un’altra chance, e cioè quella di indicare in etichetta la menzione “Vino d’Italia”, così come i francesi hanno potuto scrivere “Vin de France”. In Francia, come sottolinea la Revue, l’hanno usata sia gli industriali, che hanno continuato a fare vini senz’anima, sia i piccoli artigiani, che hanno usato questa denominazione ombrello nazionale per la sperimentazione, utilizzando ad esempio vitigni non previsti dai disciplinari locali, oppure imbracciando metodologie produttive molto spinte. Il risultato è che oggi quella dei “Vin de France” è una categoria all’interno della quale si trovano alcuni vini davvero straordinari, “che fanno ragionare sul made in France in tutto il mondo”, come scrive la Revue di Vin de France.

Giusto per far comprendere invece cosa ci sta di là delle Alpi sotto il cappello dei Vin de France, prendo alcuni esempi clamorosi che vengono dalla Loira, e cito dunque il Silex 2018 del Dagueneau, uscito dall’appellation di Pouilly-Fumé, il cui prezzo in enoteca indicato dalla Revue è di 130 euro a bottiglia, il Vieilles Vignes des Blandieres 2017 dei Mark Angeli, che sta and Anjou (non è indicato quanto costa, ma on line l’ho trovato sui 65-70 euro), il Baudoin 2018 di François Chidaine, che viene da Vouvray (27 euro), oppure L’Enclos des Remparts 2018 di Vacheron, un ex Sancerre venduto a130 euro a bottiglia. Mica poco. Davvero.

Qui da noi il Vino d’Italia di maggior successo è il Tavernello. Già, il Tavernello, che non si colloca ai vertici né dei prezzi, né delle sperimentazioni. E quando la Masi e Bruno Vespa hanno lanciato sotto l’insegno del Vino d’Italia il loro Terregiunte si è scatenato un pandemonio di polemiche. Io scrissi che invece quell’operazione aveva quanto meno il merito di aver sdoganato la menzione Vino d’Italia per una produzione che si posizionasse a interessanti livelli di prezzo. Ma niente, sembra tabù. Sì, siamo veramente bravi a buttar via le occasioni, noi.