Che belle cose che stanno facendo a Ovada

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Mi piacciono i vini rossi floreali. La florealità viene spontaneo associarla ai vini bianchi. Mi pare ovvio che accada così. Ma ci sono dei vini rossi che hanno nel loro imprintig una spiccata memoria di fiori. La viola nei rossi a base di nebbiolo, la mammola in quelli fatti col sangiovese. Questo per dire che una delle caratteristiche che più mi hanno colpito di una recente ampia degustazione dei rossi piemontesi di Ovada – ebbi modo di farla proprio là, in terra di origine, all’enoteca regionale, prima della serrata – è stato il loro bouquet floreale.

Ora, non saprei, su due piedi, dire a quale preciso fiore vada associato il profumo dell’Ovada, non sono così chirurgico nel riconoscimento e neppure sono ansioso di apprenderlo. Mi basta l’indole generale. Così come ne ho apprezzato il tannino terragno, rustico, contadino, eppure in moltissimi casi assai bene integrato nella polpa. Parimenti, contadina è la beva dell’Ovada, che chiama il cibo e la tavola sempre, e anche questo è un elemento essenziale, per me, in un vino.

Direi che queste sono le tre prerogative salienti che ho messo in memoria di quei vini, la traccia floreale, il carattere contadino e la propensione gastronomica. Mica poco, anzi.

Gli Ovada sono rossi fatti con l’uva del dolcetto ma non mi piace per nulla che vengano chiamati col nome del vitigno, perché o prevale il carattere territoriale identitario oppure è tutto inutile. Insomma, o sono Ovada o sono Dolcetto, una delle due. Riconosco peraltro che da quelle parti si è fatto un gran buon lavoro per sganciarsi dalla prevalenza dell’uva rispetto all’appartenenza territoriale, ed anzi mi pare che quello realizzato dal Consorzio ovadese sia uno dei migliori lavori collettivi che siano stati compiuti in questo senso in Italia. Dunque, mi auguro che tutti i produttori si impegnino a parlare la lingua dell’Ovada, non quella del vitigno, e parimenti che i loro vini parlino nel dialetto di Ovada, non nell’idioma della varietà d’uva.

Ne abbiamo assaggiati una trentina di Ovada, e uso il plurale perché nel salone c’erano i produttori, impegnati a rintracciare quale fosse la bottiglia di riferimento delle annate ora in commercio. Il pro è stata l’ampiezza dell’assaggio, il contro, per me che scrivo di vino, è il fatto che il Consorzio si sia categoricamente rifiutato di rendere noto l’elenco dei vini provati e anche le singole annate di ciascun campione presentato, se non la ripartizione fra più giovani (dal 2016 al 2018) e più affinati (dal 2015 in su). Ma la finalità dell’assaggio non era rivolta alla stampa, bensì agli associati, e dunque comprendo.

Per questo motivo, posso dar conto, con le note che mi appuntai allora, solo del vino che è stato il favorito dei presenti tra quelli delle annate più affinate, e si tratta di un eccellente 2011, a dimostrazione anche di come il rosso di Ovada sappia bene tenere il tempo. Tra l’altro, per quel che conta, tra i trenta vini assaggiati è stato anche quello cui ho attribuito la valutazione in assoluto più alta.

Ovada Tre Lustri 2011 Cà del Bric. Naso terroso. Torba. Pepe e frutto di bosco scuro e maturo. Fiori essiccati. Bouquet molto ampio. Bocca elegante. Nervosissima di acidità. Lunghissimo il ritorno floreale. Perfino giovanile. (93/100)