Bastardi in culla (e il ritorno di Aldo Lorenzoni)

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Qualche giorno fa ho avuto la fortunata occasione di assaggiare una decina di “bastardi in culla“, ossia di microvinificazioni appena concluse di uve rarissime, reiette, quasi estinte e alcune perfino non contemplate nel catalogo nazionale delle uve da vino, raccolte quest’anno nel Veronese e nel Vicentino. Non so, tuttavia, se la vera notizia sia questa o se sia costituita dal fatto che a realizzare questo progetto visionario e un tantino perfino temerario sono Luigino Bertolazzi, già presidente di Assoenologi del Veneto occidentale, e – udite udite! – Aldo Lorenzoni, che fino a un anno fa era direttore dei consorzi di tutela del Soave, del Lessini Durello, dell’Arcole e del Merlara. Perché, ammettiamolo, il ritorno in campo di Lorenzoni, anche se (per ora) in forma pressoché hobbistica, è già di per sé una notizia.

Però ritorno ai “bastardi in culla”, perché è su quelli che voglio focalizzarmi. Nel corso della degustazione, di evidenze anche sorprendenti ne ho ricevute parecchie, il che apre la strada a una riflessione che ha a che fare con le scelte che si dovranno affrontare a fronte dell’avanzare dirompente del cambiamento climatico. Sono infatti convinto che in viticoltura le strade percorribili per fronteggiare l’allarme climatico siano sostanzialmente tre: la prima è l’agroforestazione, di cui qui e là si stanno manifestando adozioni rilevanti, la seconda è la cisgenetica applicata alle varietà autoctone, argomento che tuttavia pare ad oggi essere tabù, la terza è il recupero delle varietà antiche, molto dotate dal lato acido e anche meno ricche sotto il profilo dell’espressione alcolica (e la scarsa potenza fu in molti casi il motivo del loro abbandono). Le sperimentazioni di Lorenzoni e Bertolazzi vanno in questa terza direzione, e i frutti delle loro microvinificazioni sembrano essere talora promettenti. Annoto che le stesse sono state condotte su quantitativi molte volte microscopici e con attrezzature non sempre ottimali, il che rende peraltro più “eroica” la scelta progettuale.

Vernazzola. La vernazzola viene dal Padovano e non è stata vinificata dal duo Lorenzoni-Bertolazzi, bensì da Gianmarco Guarise, che ha ceppi ultrasecolari di quest’antica varietà a bacca bianca, coltivati con l’arcaico sistema della piantata su salice. L’analisi del dna ha dimostrato che corrisponde alla bianchetta trevigiana. Il vino è leggermente dorato (forse per un’ossidazione incipiente) e tuttavia resta molto acido, a dimostrazione della vocazionalità spumantistica del vitigno.

Marcobona. La marcobona è un’uva bianca cui sono affezionato, perché coltivata, pur in poche quantità, dalle mie parti, in riva al lago di Garda, nei vigneti dei Guerrieri Rizzardi. È presente anche a Soave, nella proprietà di Antonio Tebaldi, e da qui vengono le uve che hanno dato il campione. Il vino sfoggia l’accattivante indole ammandorlata che conoscevo tipica della varietà e una vena sottile di anice e canfora. La struttura è solida e rugosa. Un vitigno da rivalutare.

Molinelli. Quest’uva bianca fu individuata nel Piacentino dal professor Mario Fregoni nei campi di Luigi Molinelli e siccome non corrispondeva geneticamente a nessuna varietà nota si decise di denominarla molinelli. Poi si è scoperto che c’è altrove e che è detta anche obi o uvéta di Lonigo. Qualcuno la confonde con lo chardonnay, ma assaggiando il vino direi che siamo su altri orizzonti. Il sorso ha un’acidità bruciante, rinfrescanti vene erbacee e una certa florealità.

Brepón. La caratteristica saliente di quest’uva bianca è che sembra non maturare mai. Rimane verde, anche se si copre di pruina farinosa (per questo la si chiamava anche molinara bianca). Secondo l’analisi del dna cui l’hanno sottoposta Bertolazzi e Lorenzoni (l’hanno recuperata loro nel Soavese) questa varietà “non esiste”, non è paragonabile a nulla. Il vino che se n’è tratto è sapido e polposo e non vedrei male un’interpretazione in chiave macerativa. Sorprendente.

Gouais. Uva bianca recuperata da Lorenzoni e Bertolazzi in Alta Lessinia, dove ne esistono sette ceppi in tutto. Se n’è trovata presenza tuttavia anche a Serralunga, in Piemonte, nei vigneti di Ettore Germano, e lì viene chiamata lisairé, nome che ha pure in Svizzera. In una ricerca ottocentesca sulla viticoltura veronese veniva detta smarziróla, perché ha la buccia sottile e tende dunque a marcire in fretta. Il vino ha profumi salamastri, marini e un’acidità paurosa.

Peccolo. Eccoci alle uve rosse. Ma dovrei dire invece uve rosate, perché rossa quest’uva non diventa mai del tutto. Per quanto si macerino le bucce, il vino che ne proviene è rosa, con una tonalità che vira verso il blu. Il vitigno è stato reperito sui Colli Berici, nel Vicentino. Il sorso è vellutato, setoso, eppure anche grintoso e acido. Nel finale si avverte una sottile tannicità, che è buona cosa. Un’altra microvinificazione che mi ha sorpreso parecchio.

Gambugliana. Varietà vicentina a bacca rossa. Questa volta il colore c’è, anche se non profondo. Il vino è rusticamente impostato sulle note del lampone e della mora e poi si aggiungono venature di amarena, che potrebbero crescere con l’affinamento. L’acidità, peraltro, è piuttosto imponente e quasi citrina, per cui Lorenzoni e Bertolazzi si sono detti tentati da una spumantizzazione in rosa del vino che si trae dalla gambugliana. Nutro però dubbi sulla scelta.

Cenerente. La cenerente viene dal Vicentino, ma è presente anche nel Veronese dove è detta farinante. I nomi si rifanno alla cenere e alla farina, che hanno una medesima consistenza, e infatti l’uva si copre di un velo di pruina, che sembra farina o cenere. Il vino è molto interessante. Ha un tannino consistente (anche se leggermente verde, ma da una microvinifazione fatta quando e come si può non si pretendono miracoli). Direi che si si può lavorare, il potenziale c’è.

Negrina. In realtà, questa negrina s’è dimostrata essere la cabrusina inserita qualche anno fa tra le varietà in sperimentazione nel Veronese a seguito di una richiesta, per la quale ho qualche responsabilità, presentata dal Consorzio di tutela del Bardolino (l’uva, seppure rara, è presente nell’entroterra gardesano). Il vino è molto buono e in effetti “bardolineggia” parecchio con quel suo tono selvaggio di mora e di ciliegia e soprattutto per il carattere salino e fresco.

Saccola. La saccola è l’uva da cui è partita questa nuova ricerca sulle varietà antiche. Ne ho assaggiate tre versioni, una “in bianco” del 2021 e due in rosso del 2020. La 2021 ha un colore aranciato ed è estremamente acida e agrumata, tant’è che potrebbe far da base a un metodo classico nature. La prima delle interpretazioni in rosso è briosa, gradevole, apparentemente “facile” e molto giovane. L’altra è stata vinificata con i raspi e definirla rustica è un eufemismo.